Agosto 2014. Sono gli ultimi giorni di un’estate serena, piena di bimbi, trascorsa all’insegna dei nostri marmocchi.
“Marmocchi” è così che abbiamo nominato uno dei primi gruppi whatsapp in cui tutti i membri della grande famiglia partecipano per organizzare l’estate di 7 piccoli adorabili pesti. In effetti tra balli in spiaggia, maremoti, grandi tuffi, mare e tanto sole ci siamo proprio divertiti. Custodisco nitidamente l’ immagine di Lui che al saluto dei veterani vicini di ombrellone, a braccia alzate risponde “noi il prossimo anno presenti!”.
Con quest’immagine mi appresto a vivere, inconsapevolmente, quello che sarà il più brutto e freddo inverno della mia vita.
È novembre quando Marco inizia a manifestare i primi segni di una normale influenza. Una febbriciattola non molto alta che ogni sera lo sfianca. Sarà così per tre lunghi ed interminabili mesi in cui a normali ed incoraggianti esami di routine segue un ricovero e continui esami diagnostici. È un mite 24 dicembre. All’alba raggiungo l’ospedale. Finalmente incontrerò il cardiochirurgo. In lui avevo riposto tutte le mie speranze convinta che avrebbe ripulito il cuore di mio marito da un mixoma: una forma benigna di tumore. Che fosse bravo non vi erano dubbi perché, con grande professionalità ed una lucidità agghiacciante inizia a ripulire il mio da ogni barlume di speranza annunciandomi che nel cuore di Marco c’è una massa tumorale maligna inoperabile. INOPERABILE! Da quel preciso momento una parte di me, non so dire né come né perché, si alza affronta lo sguardo dolcissimo e fiducioso del mio amore e per mano lo accompagna nel suo ultimo viaggio. L’altra affranta, distrutta, senza forze non si muove dal suo capezzale. È lei che vive in totale solitudine e sostiene pomeriggi interi, in quelle tristi stanze di ospedale, eloquenti silenzi e sguardi di dolore e sofferenza.
È lei l’unica in grado di sostenere quelle conversazioni che Marco aveva ribattezzato “discorsi dell’anima”. Paure, desideri, promesse. Come quella urlata al cielo quando profetizzò che non saremmo arrivati al nostro IV anniversario di matrimonio e promise che ci avrebbe “guardato da lassù” . È lei, una giovane donna dall’anima precocemente invecchiata che si è ripromessa di trasformare le tenebre in luce e l’assenza in presenza. È lei che nel goffo tentativo di celare la tristezza del suo sguardo, faticosamente, indossa il sorriso dolce e immortale del marito. È sola. Sofferente. Triste. La sensazione di vite finite ancora addosso. Quella di suo marito. Quella sua e del suo essere moglie. Compagna. Amante. Famiglia, nel senso tradizionale del termine. Quella dei figli, ora, senza il loro adorabile papà.
Se ne sta su una panchina di legno, vista mare con lo sguardo perso nel vuoto. Non sa cosa aspetta. Non sa cosa vuole. Sa solo che ha bisogno di quella luce. Di quella pace. Di quella bellezza incantevole che solo la natura sa regalare. A 2 anni di distanza da quell’ultimo sospiro leggero ha bisogno di credere e sperare che l’infinito esiste.
Nei momenti più duri e sofferenti del periodo in cui mio marito stava in ospedale la mia spina nel cuore era l’immagine della mia bimba orfana di padre. Tutti cercavano di consolarmi e incoraggiarmi con banali frasi di routine del tipo : “la fortuna è che è piccola” “vedrai non ricorderà nulla”. Parole vuote che tuonavano come l’ennesima punizione divina. Non potevo e non riuscivo a sopportare l’idea che potesse dimenticarlo così come se nulla fosse. Quel papà che sino a tre mesi prima trascorreva il tempo con lei alimentando di amore la sua anima e riempiendo il suo cuore di gioia … pouff… era destinato a sparire nel nulla.
Nel frastuono di quei giorni mi ero documentata su cosa fare e cosa dire ai bimbi per prepararli alla malattia così, iniziai a fare esercizio facendo diventare il tumore, per la mia cucciola di 3 anni e mezzo, un insieme di cellule birichine e un po’ cattive che litigavano con le cellule buone e che purtroppo avevano attaccato il cuore di papà. Ho tentato di spiegarle che stavamo provando a sconfiggerle ma non sapevamo ancora cosa sarebbe successo. Fatto è, che lei dopo un mese e mezzo che non vedeva più il suo papà, perché in ospedale, una sera in lacrime mi disse: “Basta! Nn dirmelo più che torna. Digli solo che gli voglio tanto bene”. Anche lei, come me, si stava preparando al peggio e si chiuse in un silenzio di dolore. Nessuna parola sulla malattia né sulla sua degenza sino a quel dannato giorno che cambiò per sempre le nostre vite.
Mentre l’accompagnavo da un amichetto con aria rassegnata mi chiese:” tu vai da papà?” Non potevo rimandare. Erano passate poche ore ma era giunto il momento di dirle la verità. “No amore. Mamma non andrà più da papà”. Con occhi sorpresi e al tempo stesso inquisitori mi chiese”perché”? _ ed io: “Perché papà non c’è più si è trasformato in una farfalla.”
L’idea della farfalla l’avevamo escogitata insieme qualche mese prima in occasione della scomparsa della sua maestra del nido.
Lei, inconsapevolmente sollevata, disse:” ma quindi noi non abbiamo più un papà? Ed io le spiegai che nel modo in cui conoscevamo no. Non avremmo più avuto un papà.
Una settimana dopo il funerale io iniziai subito un percorso di psicoterapia e non tanto per me ormai spenta, senza energia, senza voglia di vivere e con strani pensieri che mi passavano per la mente ma per Lei. Non potevo e non volevo che il mio dolore la segnasse più di quello che la vita aveva già fatto. Dovevo aiutarla, dovevo sostenerla, dovevo trovare un senso in questa terribile ingiustizia. Dovevo e volevo salvaguardare il rapporto con il fratello di poco più grande, figlio di mio marito avuto da una precedente relazione. Quindi per compiere questo miracolo ebbi l’intuizione, o forse solo l’istinto, di ripartire da me. Sentivo che l’elaborazione del mio lutto avrebbe consentito alla mia bimba di andare avanti serenamente. È cosi è stato. Sotto l’impeto di una sola parola d’ordine: “TRASFORMARE” ho trovato non il modo di uscirne ma di stare. Di stare esattamente li, dove le nostre vite si sono fermate e piano piano da li decidere di continuare. Ho aperto la mia casa ad una ragazza alla pari che mi aiuta con la mia bimba in modo che quel vuoto diventasse nuova opportunità; ho parlato loro del cimitero come luogo di memoria storica in cui troviamo tutte le persone che sono passate sulla terra e quando decidono di accompagnarmi la musica fa sempre da sottofondo al posizionamento dei fiori. Ho continuato a rimboccarmi le maniche e a lavorare ma in casi come questi l’invito a lasciarsi tutto alle spalle, voltare pagina, ricominciare non si addice affatto alla situazione. Non puoi emotivamente “dimenticare” e andare avanti. Devi anche fermarti. Imparare a prenderti cura di ciò che resta del tuo cuore, piangere, piangere e piangere e poi… piangere magari mentre arriva il primo compleanno della tua bimba e tu senti che non puoi farcela a restare lì dove lui non c’è più. Allora chiedi al gruppo delle “amiche mamme” di accompagnarti in campeggio.
Un viaggio, una situazione divertente e nuova con persone che capiscono come stai e che sono davvero pronte a reggere con te quel dolore, è quello che serve in questi casi.
Piano piano ho capito che quando mi manca non serve nasconderlo lo dico a voce alta e mi dedico del tempo prezioso con i bimbi solo per ricordarlo. È per questo stesso motivo che continuo a festeggiare il suo compleanno con un viaggio o con un semplice lancio delle lanterne; a organizzare un momento conviviale con amici e parenti il giorno del suo anniversario. Che alla festa del papà faccio recitare le poesie e con i colori e le sue vecchie scarpe ci divertiamo a fare le impronte su un cartellone. Che anche quest’ anno, per il terzo anno, saluteremo l’estate con un memorial a lui dedicato e durante il quale i bambini incontrano gli amici più cari del loro papà.
Insomma vado avanti e ogni tanto torno indietro ma solo per capire quale altro pezzo di lui portare con me nella vita dei bimbi che, per dover di cronaca, non dimenticano affatto. La più piccola di 6 anni fa esperienza di ricordi riguardando all’infinito i suoi video con il papà. Sentire la sua voce risuonare per casa all’inizio è stata dura per me. Ma le manca tantissimo e questo la aiuta.
Parla serenamente del suo papà in tutte le situazioni e lo sente più vicino che mai anche perché è dall’estate del 2015, anno in cui mio marito è venuto a mancare, che una farfalla bianco nera ogni estate a pranzo sorvola il nostro giardino e si posa sulle mani della mia bimba e dei miei nipoti.
Ho imparato che la morte non è fine ma è trasformazione e che anche le nostre emozioni possono subire lo stesso destino.
Caterina Iannone